Meditazione sul Sabato santo
Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato
già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è “disceso all'inferno”.
Nello stesso tempo l'esperienza del nostro tempo ci ha offerto un
approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio
nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo
nome, l'esperienza della impotenza di Dio, che è tuttavia l'onnipotente, questa
è l'esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma, anche se il Sabato santo ci si è avvicinato profondamente, anche se
noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di
Dio in mezzo ai tuoni e i lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane
tuttavia insoluta la questione di sapere cosa si intende veramente quando si
dice in maniera misteriosa che Gesù 'è disceso all'inferno'.
Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo. Né diventa
più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola
ebraica shèol, che sta ad indicare semplicemente tutto il regno dei morti, per cui la
formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella
profondità della morte, è realmente morto ed ha partecipato all'abisso del nostro destino di morte.
Infatti sorge allora la domanda: cos'è realmente la morte e cosa accade
effettivamente quando si scende nelle profondità della morte?
Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa dopo
che Cristo l'ha subita, dopo che egli l'ha accettata
e penetrata, così come la vita, l'essere umano, non sono più la stessa
cosa dopo che in Cristo la natura umana potè venire a contatto, e di fatto
venne, con l'essere proprio di Dio.
Prima la morte era soltanto morte, separazione
dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come
'inferno', rovescio dell'esistere, buio impenetrabile.
Adesso però la morte è anche vita e, quando noi oltrepassiamo la glaciale
solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con Colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della
nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia
nell'orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato? », è divenuto partecipe delle nostre solitudini.
Se un bambino si dovesse avventurare solo nella notte buia attraverso
un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non
ci sarebbe alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui
si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l'insicurezza, l'essere fuori
di sè, il carattere sinistro dell'esistenza
in sé.
Solo una parola umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona
cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l'angoscia. Si dà un'angoscia, quella vera,
annidata nella profondità delle nostre solitudini, che non può essere cacciata via mediante la
ragione, ma solo con la presenza di una
persona che ci ama.
Quest'angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma
solo l'estraneità della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa
di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e
consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto?
Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta
dalla parola trasformatrice
dell’ amore, allora noi
parliamo di .inferno.
E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente
così ottimistico, sono dell'avviso che ogni incontro rimane in superficie, che
nessun uomo ha accesso all'ultima e vera profondità dell'altro e che quindi nel
fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l'inferno.
Jean Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e
nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull'uomo.
Una cosa è certa: si dà una notte nel cui abbandono buio non penetra alcuna parola
di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la
porta della morte.
Tutta l'angoscia di questo mondo è in ultima analisi l'angoscia
provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il
termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si
indicava l'inferno: shéol.
La morte infatti è solitudine
assoluta. Ma quella solitudine che non può
essere più illuminata dall'amore, che è talmente profonda che l'amore non può più accedere ad essa, è l'inferno.
“Disceso all’inferno”: questa confessione del Sabato santo sta a
significare che Crjsto ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo
irraggiungibile ed inaccostabile della nostra condizione di solitudine. Questo
sta a significare però che anche nella notte estrema, nella quale non penetra
alcuna parola, nella quale noi tutti siamo bambini cacciati via, piangenti, si
dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce.
La solitudine
insuperabile dell'uomo è stata superata dal
momento che Egli
si
è
trovato
in essa. L'inferno è
stato vinto dal momento in cui l'amore
è penetrato in esso e la terra di nessuno della solitudine
è
stata
abitata da lui.
Nella sua profondità l'uomo non vive di pane, ma nell'autenticità del
suo essere, egli vive per il fatto che è amato e può amare.
A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza
dell'amore, allora nella morte penetra la vita: “ai tuoi fedeli o Signore la
vita non è tolta, ma trasformata” prega la chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: “disceso
all'inferno”. Ma se qualche volta ci è dato di avvicinarci all'ora della nostra
solitudine ultima, potremo comprendere qualcosa della grande chiarezza di
questo mistero buio.
Nella certezza sperante che in quell'ora di estrema solitudine non
saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. Ed in
mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a
diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
J. Ratzinger
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